MOTOCICLISMO 15 Dicembre 2016
Viaggio in solitaria alla scoperta delle Americhe. 70.000 chilometri dalla Terra del Fuoco all’Alaska.
Novembre 2014/Novembre 2015
Questo progetto rappresenta un “Master on the road” a conferma di quanto il mondo abbia da offrire e soprattutto che impareggiabile scuola di vita sia il viaggio.
Continua la filosofia delle precedenti esperienze di viaggio, per trovare le risposte per le quali 80 giorni non sono bastati, per capire meglio, ed in altri paesi, come le persone affrontano questi nostri stessi giorni , per esplorare ogni possibilità e stile di vita. Per trovare un posto in questa confusione chiamata società.
Bagagli pronti, moto imbarcata, GPS caricato con la mappa sudamericana. Il 24 novembre 2014 prendo il volo Milano – Santiago del Chile, pronto ad iniziare quello che ricorderò come l’anno più denso e stimolante della mia vita. Il piano iniziale era molto semplice, prevedeva solo due tappe certe: Ushuaia (Argentina) e Fairbanks, o qualsiasi altro posto oltre il confine dell’Alaska. Tutto ciò che avrei trovato in mezzo, da una parte non era di fondamentale importanza, dall’altro rappresentava lo scopo stesso del viaggio.
Proprio quella totale assenza di pianificazione, l’idea di poter vagare libero, senza una vera meta, era la grande spinta con cui avrei affrontato ogni singolo giorno. Ho sempre preferito “non prepararmi” al viaggio, almeno non in senso nozionistico. Non mi piace leggere dei posti che vedrò o delle usanze che incontrerò, in modo da non crearmi aspettative e potermi sempre sorprendere.
SOGNO PANAMERICANO
La Panamericana considerata nel suo intero, dalla Tierra del Fuego fino all’Alaska, ospita praticamente tutte le varianti possibili in termini climatici, ambientali, stradali, paesaggistici e culturali. Durante i miei 362 giorni ho percorso esattamente 71.300 km. Ho toccato i 4.750 m del passo Jama in Argentina e i – 86 m nella Death Valley, in California. Ho guidato sulla via più larga del mondo, a Buenos Aires, e ho tracciato sentieri larghi come le mie ruote. Ho attraversato il deserto più secco al mondo, quello di Atacama, e la giungla più umida, in Amazzonia. Ho guidato su asfalto, terra, sale, sabbia, fango, ghiaia e roccia. Affrontato climi dai -5 °C fino ai +52. Ho bivaccato in boschi, deserti, praterie. Ho dovuto caricare la mia compagna di viaggio su 7 traghetti. Ho consumato 3 paia di guanti, 12 copertoni, e ho bucato gomma 13 volte. Ho attraversato le più grandi metropoli e scoperto minuscoli villaggi sperduti, ho assaggiato cibi di ogni genere, bevuto una pozione magica e persino seguito una Dakar! A volte ho sfruttato le strade desolate per correre, a volte mi sono goduto il rumore del motore della mia moto a 30 km/h.
La passione per il fuoristrada, unitamente alla voglia di avventura, ha inoltre fatto sì che i miei percorsi fossero quasi sempre lontani da quelli turistici, poco frequentati e anche dismessi. Questa scelta mi ha regalato incredibili occasioni d’incontro e di conoscenza, permettendomi di affinare le arti dell’improvvisazione, del sapersi arrangiare. Le esperienze più importanti, infatti, le ho vissute a seguito di guasti imprevisti o inattesi cambi di programma, e ritengo che senza di essi il viaggio avrebbe perso molto.
Quando la sfortuna si accanisce
Ricordo per esempio una notte in Guatemala: vagavo come sempre senza una meta precisa, cercavo però di raggiungere un centro abitato (necessario dopo giorni e giorni di accampamenti di fortuna). Nel tentativo di mantenere una rotta ipoteticamente giusta, finisco in un sentiero sperduto. Non sarebbe stato un grosso problema se non che ormai era completamente buio, pioveva e il sentiero si faceva sempre più impervio. Senza scoraggiarmi decidevo di proseguire ma evidentemente stavano iniziando le fatidiche 24 ore di sfortuna nera. Per farla breve, quella notte riuscirò a bucare ben quattro volte, tutte sull’anteriore, finire benzina nel nulla e rompere addirittura il pignone a metà. Difficilmente scorderò la sensazione che ho provato: è vero che non mangiavo da parecchio, che ero distrutto e inzuppato, ma quello, giuro, mi è sembrato l’inferno. Fortunatamente il destino ha voluto farmi apprezzare anche quei momenti e addolcirli nei ricordi: immediatamente dopo la rottura, infatti, sono stato ospitato da una famiglia Chuj, etnia indigena locale che è riuscita a mantenere integra la sua identità culturale, tanto è vero che quasi nessuno di quel popolo parla lo spagnolo, e per quanto riguarda la religione ha coniugato aspetti della fede Maya con caratteri propri del cristianesimo, dando luogo a pittoresche cerimonie, caratterizzate da luci soffuse, canti, grida e gemiti. Ecco, io sono entrato nella casa Chuj proprio mentre stava iniziando una sessione di preghiera. Superato lo shock iniziale, ho avuto il privilegio di poter sbirciare in questo mondo cosi lontano e affascinante: non c’era elettricità, riscaldamento e neppure acqua corrente, ma quella notte, in mezzo a tutte quelle grida, ho sentito il calore umano, unito a sensazioni stranamente familiari, e non potevo desiderare di essere altrove. Artefice del mio destino. È così che mi sono sentito dopo aver superato quelle maledette 24 ore. Pronto ad affrontare le incognite del viaggio con la consapevolezza di poter contare su tre indiscutibili compagni di viaggio: la mia strada, il mio tempo, la mia moto.
La moto
Stessa mia data di nascita e un destino in comune: La Niña (anche conosciuta come Africa Twin 750 RD04) è la mia fedele compagna l’unica testimone di ogni singolo chilometro del mio viaggio. Mi sembra davvero di poter scorgere qualche segnale del suo stato guardandola dritto nei fari. Proprio nei momenti più difficili, lei sta lì, ti guarda, come dire: io sono pronta, non sono stanca, tu ce la fai? La nostra è stata una vera simbiosi, tanto che ad un certo punto, verso il sesto mese, mi sono accorto di provare una strana empatia con essa: del tipo che se la mattina mi svegliavo con il mal di pancia, automaticamente pensavo “ahia, oggi sicuro buco una gomma” o associazioni simili e contrarie, tipo: “oggi i carburatori proprio non vanno, ecco stasera mal di denti assicurato“. Pensandoci una spiegazione potrebbe essere che quando le condizioni erano particolarmente impervie, lo erano per l’uomo e per la macchina (vedi altitudini sopra i 4.000 m). Fortunatamente nessuno dei due è mai stato colto da grandi mali.
La strada
Asfalto, terra, sabbia, sale, fango, rocce o pietra; non importa la composizione della strada, quanto lunga, tortuosa o lineare, in ogni caso è stata anche questa una fedele compagna di viaggio, grande maestra e continua ispirazione. Impari ad associarla direttamente alla vita, capendo che ogni solco o sentiero è indice di presenza umana e che, in un modo o nell’altro, questo ti permetterà di andare avanti. Succede così che inizi a preoccuparti più di come passa il tempo, che non di quanto ne impiegherai per arrivare. E tutto intorno prende forma e colore. Nei ricordi più dolci, appare sempre una strada: cielo terso, luce intensa, curva a destra, fondo ghiaioso, l’aria pungente profuma di pini e polvere, boschi tutto intorno. La roccia, mentre curvo, svela lentamente lo specchio limpido del fiordo. Ricordo benissimo quella strada: la Carretera Austral. Dal profondo sud cileno, risale la costa Pacifica fino a Puerto Montt. Milleduecento chilometri di pista bianca, immersa nella natura selvaggia, si districa nel complicatissimo territorio Patagonico. Strappata in parte alla grande catena delle Ande e in parte rubata all’oceano, la Carretera Austral rappresenta per me uno dei più bei tratti di mondo esistenti.
Il tempo
Non ho mai avuto nessun tipo di orologio, né da polso, né di altro tipo. Proprio sopra la tua testa c’è sempre il terzo ed insostituibile compagno di viaggio: il sole. Sembra una sottigliezza, ma uno degli aspetti della mia vita che cambiano di più tra quando viaggio e quando sono a casa è proprio il fatto che l’orologio biologico si sincronizzi con il sole. D’altro canto mentre viaggi quello che importa è sapere quante ore di luce mancano prima del buio o quanto vestirsi, e per quello basta guardare in su.
I compagni di viaggio
Una delle domande più ricorrenti che mi hanno fatto amici e conoscenti al ritorno dal mio viaggio è stata: “Ma hai fatto tutto il viaggio in solitaria?”. Stranamente quel quesito, anche dopo varie settimane, provocava sempre una mia risposta tentennante, insicura; l’unica per la quale non si fosse innestata una risposta automatica, come tante altre, all’ennesima interrogazione. Pensandoci non posso fare a meno di darmi una doppia risposta: certamente ero solo, sono partito e tornato solo, le lunghe e solinghe notti lo confermano, cosi come tutti quei chilometri tra me e me; quando però penso ai luoghi attraversati e alle innumerevoli avventure, vi associo sempre la faccia di un amico/a. Tanti sono gli amici che hanno reso unico questo mio anno nomade attraverso le due Americhe, impossibile raccontare di tutti, ma spero che le testimonianze che ho scelto riescano a rendere tangibili le tracce che hanno lasciato sulla mia strada rendendola unica.